L’introduzione dell’istituto dell’ADS con la legge n. 6 del 2004 ha immediatamente sollevato la questione, sia in dottrina che in giurisprudenza, relativa alla sua qualificazione soggettiva: soggetto di diritto privato o pubblico ufficiale? L’orientamento giurisprudenziale prevalente attribuiva all’istituto natura pubblicistica al contrario della dottrina che sostanzialmente ne evidenziava il profilo di diritto privato guardando all’ADS quale garante dell’interesse del beneficiario. Definitivo chiarimento sulla qualificazione giuridica giunge, dieci anni dopo, con la sentenza della Suprema Corte n. 50754 del 2014, che decreta la natura pubblica dell’ADS.
In particolare, chiarisce la Suprema Corte, la nozione di pubblico ufficiale dell’ADS si ricava dagli artt. 357 e 358 c.p., alla luce dei quali non è pubblico ufficiale solo ed esclusivamente colui che ha un rapporto di dipendenza con un ente della pubblica amministrazione o agisce con i poteri propri di quest’ultima ma colui che svolge una pubblica funzione “occorrendo privilegiare la verifica della reale attività esercitata e degli scopi perseguiti, per stabilire se l’attività dell’agente sia imputabile al soggetto pubblico” ed in tal senso non vi sono dubbi che l’ADS svolge un servizio di utilità collettiva costituzionalmente previsto dall’art. 2 e dell’art. 38 cioè l’obbligo di assistenzialità a favore dei soggetti più deboli tra i quali dobbiamo annoverare appunto coloro che hanno un problema fisico e/o psichico.
Funzione pubblica che viene altresì in rilievo dall’applicabilità all’ADS delle disposizioni normative che riguardano la figura del Tutore, al quale indubbiamente è attribuita natura pubblica. Si tratta della prestazione del giuramento prima dell’assunzione dell’incarico (art. 349 c.c.), del regime delle incapacità e delle dispense (artt. 350-353 c.c.); della disciplina delle autorizzazioni, delle categorie degli atti vietati, del rendiconto annuale al giudice tutelare sulla contabilità dell’amministrazione (artt. 374-388 c.c.); dell’applicazione, nei limiti di compatibilità, delle norme limitative in punto di capacità a ricevere per testamento (artt. 596, 599 c.c.) e delle capacità di ricevere per donazioni (art. 779 c.c.).
Chiaramente la qualificazione giuridica dell’ADS quale pubblico ufficiale lo rende responsabile a livello penale di tutta una serie di reati che sono propri del pubblico ufficiale (peculato, abuso di atti d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, atti di falso). Il reato più comune è il peculato (art. 314 c.p.) che, tuttavia, nei casi meno gravi trova la giurisprudenza particolarmente discordante nel condannare o assolvere le varie forme di appropriazione di somme che appartengono all’amministrato da parte dell’ADS. La fattispecie più frequente è quella dell’ADS che effettua un bonifico a suo favore dal c/c del beneficiario, se non è riscontrato l’interesse del beneficiario è evidente che siamo di fronte ad un reato di peculato. Il problema si pone invece per quei casi meno gravi dove occorrerà valutare l’effettiva condotta dell’ADS.
Si consideri l’ipotesi in cui il beneficiario percepisce una pensione di 1000,00 euro e le spese mensilmente documentate sono pari ad euro 800,00, tuttavia l’ADS preleva costantemente 1000,00 euro al mese. Di fronte a casi di questo tipo parte della giurisprudenza ha riconosciuto una presunzione di appropriazione di somme appartenenti al beneficiario condannando l’ADS e ritenendolo responsabile laddove non abbia fornito prova di quelle spese che sosteneva di aver fatto.
Al fine di evitare che in via presuntiva tale condotta possa essere configurata quale appropriazione indebita in termini aggravati della somma di euro 200,00, l’ADS avrebbe dovuto riferire al Giudice Tutelare la necessità di queste spese, ad esempio per il vitto, e depositare un’apposita istanza per essere autorizzato a prelevare la somma di 200,00 euro specificando mediamente serve per poter sostenere le spese di vitto mensili per il beneficiario.
Altro reato tipico del quale può rispondere l’ADS è l’omissione o il rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) e il reato di falso (art. 476 c.p.). L’ADS è chiamato a redigere il rendiconto annuale al fine di permettere al giudice di esercitare quel potere di controllo previsto nell’interesse del beneficiario. Qualora l’ADS rifiuti o meglio non rediga il c.d. rendiconto il G.T. formula una vera e propria diffida a procedere entro un termine trascorso il quale senza che l’ADS provveda questi risponderà di omissione di atti d’ufficio o meglio di rifiuto di atti d’ufficio configurandosi un reato-fine. Spesso si verifica, invece, che il non redigere il rendiconto annuale è finalizzato ad evitare di far controllare un’eventuale appropriazione di somme o di beni che appartengono al beneficiario, in questo caso avremmo un concorso di due reati l’omissione di atti d’ufficio e il peculato.
Stessa cosa dicasi del reato di falso, altro reato proprio che può essere compiuto solo dal pubblico ufficiale. Come ad esempio il caso in cui l’ADS faccia una dichiarazione non veritiera di quelle che sono le entrate e le uscite per fare apparire un rendiconto in cui ad es. le uscite sono maggiori rispetto alle entrate o gonfiare le uscite per coprire l’appropriazione di somme dell’amministrato. In realtà il falso potrebbe essere compiuto anche solo nel fare una falsa dichiarazione di indigenza del beneficiario al fine di usufruire di contributi e/o aiuti.
Diverso è il reato di abuso di atti d’ufficio (art. 323 c.p.). Una delle prerogative del rapporto tra beneficiario e ADS è che quest’ultimo, qualunque attività ponga in essere, debba agire costantemente nell’interesse del beneficiario che non sempre è incapace naturalmente d’intendere e di volere come succede spesso per quegli amministrati che pur essendo costretti a letto prendono lucidamente decisioni e non hanno alcuna deficienza dal punto di vista cognitivo e psichiatrico. In questi casi, se l’ADS operasse delle scelte, che possano pregiudicare gli interessi dell’amministrato, senza preventivamente informare quest’ultimo andrebbe a compiere appunto un reato di abuso di atti d’ufficio.
A differenza degli altri due reati, di falso e di omissione di atti d’ufficio, l’abuso di atti d’ufficio non può concorrere con il reato di peculato, posto che l’art. 323 c.p. è una norma di salvaguardia (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato …”) quindi se l’abuso di atti d’ufficio viene posto in essere dall’ADS al fine di appropriarsi di beni e/o somme di proprietà del beneficiario (peculato) in questo caso specifico non si configura un concorso di norme ma un assorbimento nel reato di peculato dell’abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cp proprio perché il reato più grave sarebbe il reato di peculato.
Altro reato non proprio del pubblico ufficiale, in cui può incorrere l’ADS è la circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.) che si verifica quando l’ADS esercita una sorta di abuso di autorità che induce psicologicamente l’amministrato a compiere atti a vantaggio di terzi o dello stesso ADS (ad es. indurre il beneficiario a fare testamento a favore di un soggetto vicino all’ADS o addirittura a suo favore abusando dei poteri che gli sono stati conferiti).
Infatti, laddove il decreto di nomina dell’ADS non limiti tale capacità dispositiva significa che quel potere è lasciato alla disponibilità dell’amministrato che ha piena capacità di compiere atti di disposizione patrimoniale. A tal riguardo la Corte Costituzionale – sentenza n. 114/2019 – ha chiarito che “il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, diversamente dal provvedimento di interdizione e di inabilitazione, non determina uno status di incapacità della persona (sentenza n. 440 del 2005), a cui debbano riconnettersi automaticamente i divieti e le incapacità che il codice civile fa discendere come necessaria conseguenza della condizione di interdetto o di inabilitato” e quindi “Ne consegue che il giudice tutelare si limita, in via di principio, a individuare gli atti in relazione ai quali ne ritiene necessario l’intervento, «senza peraltro determinare una limitazione generale della capacità di agire del beneficiario»: il giudice tutelare «non si muove, come il giudice della interdizione, nell’ottica dell’accertamento della incapacità di agire della persona sottoposta al suo esame […], ma nella diversa direzione della individuazione, nell’interesse del beneficiario, dei necessari strumenti di sostegno con riferimento alle sole categorie di atti al cui compimento lo ritenga inidoneo» (Cass., sez. prima civ., n. 25366 del 2006)”.
La scelta dell’amministratore di sostegno, quindi, che deve essere fatta “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario” (art. 408 c.c.), non può prescindere dal considerare l’adeguata competenza del soggetto da nominare che spesso non ha consapevolezza delle gravi responsabilità anche penali a cui la propria condotta è esposta e non è in grado di muoversi nei limiti attribuitegli dal decreto di nomina trascurando gli ampi poteri autoritativi del giudice tutelare.